La Tua Seconda Cosa Preferita 56: una newsletter substandard
Avete mai la sensazione di trovarvi proprio al centro di Altrove, l’immaginaria cittadina dove si svolgevano le avventure di Leone il Cane Fifone? Un piccolo puntino perso in mezzo a un enorme, completa, vastità piena zeppa di niente?
No? Solo io? E allora questa newsletter triste è la cosa più felice che vedrete oggi.
Siete pronti?
3 notizie, un abbraccio.
Mi piacerebbe dire di essere uno sportivo. Anzi, mi piacerebbe dire anche solo di essere appassionato di sport; uno di quelli che riconosce tutti i giocatori, ne discute al bar con gli amici e che ti fa sentire in colpa perché non ti ricordi il gol di Trazimenez al 92esimo in Chieti - Sesto San Giovanni, una svirgolata entrata in porta un po’ per sbaglio e un po’ no.
Mi piacerebbe, è vero, però non è così.
Eppure, c’è qualcosa di enormemente affascinante, almeno per me, nelle competizioni di atletica, tipo la settimana scorsa mi sono fermato a guardare gli Europei che si sono tenuti a Roma, e, porca vacca che storia.
C’è una sorta di tensione, una certa dose di magia nelle storie di queste persone. Atleti che dedicano vite intere a fare quell’unica cosa e a farla sempre meglio: anni di sforzi, sacrifici e tensione che si comprimono in poche decide di secondi, a volte meno, per essere rilasciati nel tempo di un attimo.
Ma Luca - direte voi - cosa centra questa roba con le community? Beh, insomma, tutto.
Le community, ve lo dico sempre, sono fatte di persone. Senza quelle, niente, la piramide crolla, il gioco finisce.
E cosa c’è di più community di quel salto? Di quell’abbraccio? Del calore di quegli applausi? Di tutta questa roba?
Boh. Se c’è io non lo so.
Facciamo un gioco. Chiudete gli occhi (ma tenetene uno mezzo aperto perché se no non leggete il pezzo) e rispondete a questa domanda.
Qual è la prima cosa che vi viene in mente quando vi dico “cibo americano”?
Non è difficile vedervi mentre nelle vostre testoline si affollano immagini di gustosi Hot Dog, succosi Hamburger, patatine fritte, ma soprattutto enormi, industriali, mastodontici quantitativi di giallissimo cheddar.
Ok, fino a qui tutto chiaro. I nostri amici a Stelle e Strisce non hanno una grande cultura in fatto di formaggi e di certo non si avvicinano alle 246 varietà di cui parla Charles de Gaulle descrivendo il popolo francese, eppure, secondo me non vi siete mai fatti una domanda che alla fine è fondamentale, ovvero: ma il formaggio americano, alla fine, è vero formaggio?
Beh, ecco, no.
Ok, fermi, cosa vuol dire che quello non è vero formaggio? Che, almeno legalmente, quello americano non è considerabile come, mh, il nostro Grana.
L’FDA (la Food & Drug Administration) si riferisce a questi prodotti come “pasteurized processed American cheese food”. Insomma, per essere riconosciuto come vero e proprio formaggio il prodotto ne deve contenere almeno il 51% (mi sembra anche poco) e quello americano, ecco, questa percentuale non la raggiunge. Non vero formaggio quindi, ma un prodotto a base di lavorato e spacciato per qualcosa che non è.
Insomma, se avessi bevuto un numero di birrette uguale o superiore a 4 mi imbarcherei in un discorso fatto di USA, iperconsumismo e di come anche il cibo sia sintomatico di una cultura post-prodotta. Non vi ammorbo, il succo lo avete capito.
Interno giorno, ufficio.
Una luce di metà pomeriggio entra pigramente dalle finestre. Il posto di lavoro è semi-deserto e pochi rumori fanno da colonna sonora alla scena. Rumori di tasti battuti. Un colpo di tosse. La rotella di una sedia ormai troppo vecchia che fischia quando viene spostata.
Il silenzio avvolgente come melassa viene interrotto dallo squillo di un telefono.
LUCA
”Ciao Nonna, non posso parlare, sono a lavoro, ci sentiamo dopo”
Stacco.
Ok, cosa abbiamo appena visto? Si, esatto, più o meno ogni mia giornata lavorativa, ma anche che, personalmente, se ti sto parlando del mio ufficio, tendenzialmente ti dirò che sono a lavoro, non al lavoro. Ma è corretto?
Eh, no.
Treccani, con una punta di disprezzo ci dice che “la differenza sta nel fatto che sono al lavoro appartiene all'italiano standard, mentre sono a lavoro a un italiano al limite tra il substandard (molto informale, popolare) e il regionale (tipico dell'italiano parlato in alcune aree geografiche). Insomma, dicendo sono al lavoro si ha sempre ragione.”
Capite? SUBSTANDARD. IO! Ma come si permette?
Non ho la parola per il glossario, ma ho una canzone che mi può fare da outro, godetevela.